Specchio della psiche e della civiltà

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 29 maggio 2021.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

 

(Ottava Parte)

 

14. Personaggi e protagonisti della comunicazione rinascimentale intesa come missione o arte. Conservando sempre il fil rouge di documenti e testimonianze su Leonardo e tenendolo in sospeso, ci spostiamo nuovamente nello spazio della Firenze rinascimentale per osservare un caso speciale ma non raro di comunicazione sociale dell’epoca; particolarmente interessante perché l’oggetto non era costituito da notizie o informazioni sull’attualità della politica o della cronaca, come avviene oggi, ma da contenuti edificanti. Un’altra piccola tessera nel mosaico che cerco di comporre per ricostruire la superficie riflettente l’anima e lo stile civile del tempo, immaginando l’atmosfera di quei giorni.

Era arcivescovo in Firenze Antonino Pierozzi, domenicano asciutto e macilento per lungo digiunare e intenso lavorare per i poveri, tenuto per santo dal popolo e accostato a San Zanobi, il primo vescovo della storia della città, sepolto in San Lorenzo nel V secolo e famoso per l’olmo rinsecchito che rifiorì al passaggio della sua bara durante la traslazione delle spoglie: miracolo che ispirò artisti in tutta Europa. Proprio accanto alla colonna che ricordava quel miracolo e che riceve ancora i fiori del ricordo il 26 di gennaio[1], vicino al Battistero che Dante chiamava il “mio bel San Giovanni”, Antonino soleva incontrare un altro domenicano del convento di San Marco, dove troneggia l’effige di San Tommaso, un religioso che tutta Firenze chiamava semplicemente “il frate”, più di lui smunto e ossuto, sempre incappucciato, col naso adunco e poco gradevole nelle sembianze, dalle quali però traspariva la profondità mistica dello spirito che ispirò Fra’ Bartolomeo nel fargli il ritratto e consentirci di conoscere la fisionomia di Girolamo Savonarola.

Il presule Antonino doveva faticare non poco a spiegare le ragioni del rigore e delle invettive contro il Magnifico del frate, perché il popolo amava il giovane Lorenzo, umile, leale, coraggioso, che era sopravvissuto al vile agguato della congiura de’ Pazzi, durante il quale nel giorno di Pasqua alla messa solenne, approfittando dello stato inerme di fedele in preghiera, fu barbaramente assassinato il fratello Giuliano con pugnalate sacrileghe al segno dell’elevazione del calice, da Bandini e da un membro di quella famiglia che era ritenuta pia quando Pazzino de’ Pazzi, al seguito di Goffredo di Buglione, aveva portato a Firenze le pietre del Santo Sepolcro liberato con la Prima Crociata, ma poi si era incomprensibilmente volta al male per avidità e sete di potere, al punto che il loro cognome assunse il significato di matto, dando luogo al valore semantico attuale del sostantivo pazzo in italiano[2].

Lorenzo era amato dal popolo, che non riusciva a spiegare la severità del Savonarola nei suoi confronti se non con il ruolo di paladino della Repubblica assunto dal frate. La congiura dei Pazzi fu una prova di questo amore per i due giovani fratelli e motivo perché crescesse e si rinsaldasse. Non solo era accaduto che dopo la congiura vi era stata una rivolta del popolo che mise a morte e giustiziò i congiurati, ma anche durante la barbara aggressione sacrilega[3] fu testimoniato questo amore a costo della vita[4].

Dopo aver ucciso Giuliano, si avventarono contro Lorenzo che, con l’aiuto di un amico fraterno che spesso gli faceva da scudiero, riuscì a fuggire in sagrestia. Fu il Poliziano, amico e testimone della congiura, a chiudere l’uscio della sagrestia. Come si legge in una cronaca dell’epoca: “Diedero a Lorenzo due colpi, uno sul collo e uno sul capo; e per buona difesa che fece Lorenzo coll’aiuto di un suo famiglio e de’ poeti del coro, con quelle mazze che tengono in mano, si fuggì in sacrestia. E in questa difesa fu ucciso Francesco Nori, mercante fiorentino”[5]. Il Nori aveva già tentato di salvare Giuliano, e poi, per impedire che i congiurati raggiungessero Lorenzo, li affrontò. Scrive Antonio da Sangallo: “Bernardo Bandini ammazzò Francesco d’Antonio Nori che era abbracciato con Giuliano”. E il Poliziano: “…Imbattendosi però in Francesco Nori, molto esperto facitore delle cose de’ Medici, gli affonda la spada nel petto”[6].

Il Poliziano fu tra quelli che diffuse la fama dei Medici quali benefattori colti e sensibili.

Un sacerdote che veniva dal contado, del quale si diceva avesse costruito da sé con l’aiuto dei fedeli la chiesa della pieve dove officiava, faceva frusciare la lunga veste col suo passo ampio e spedito nel percorrere le strade del centro cittadino, dove passava fra la gente che lo salutava – perché tanti lo conoscevano – lasciando sorrisi e alternando frasi benevolenti a divertenti battute di spirito, fino a quando, sempre tenendo serrato tra le mani un ponderoso tomo, giungeva dappresso le botteghe dove, come abbiamo visto, solevano spesso sostare musici e curiosi.

Talvolta gli offrivano una sedia, talaltra cominciava in piedi, per scomodo che fosse tenere aperto il suo libro, e prendeva a leggere, con tono accattivante e pronuncia da fine dicitore, la parola di Dio per coloro che, affaccendati nel lavoro dall’alba al tramonto, e spesso per mancanza di “lettere e di modo”, ossia perché analfabeti e privi dei testi sacri, non potevano provvedervi da soli. La preoccupazione del sacerdote era accresciuta dal testo della parabola del ricco Epulone, dalla quale si deduce il criterio di giudizio divino dell’uomo basato sull’esistenza delle sacre scritture e, implicitamente, sulla responsabilità di ciascuno di conoscerle.

Il sacerdote era il celebre Piovano o Pievano Arlotto[7], ricordato per le facezie e le burle che lo avevano reso celebre e gli avevano procurato noie ma, soprattutto, gli avevano consentito di proporre un’alternativa all’immagine sofferta e triste del sacerdote penitente medievale rilanciata dal Savonarola, e incarnare un nuovo stile di uomo consacrato, cui si ispirerà il Fiorentino San Filippo Neri[8].

Quando il Piovano compiva la sua missione di istruzione sacra, non accettava interruzioni per facezie, e la sua seriosa irremovibilità in quella circostanza era risaputa, non meno della giovialità e dello spiccato senso dell’umorismo che lo contraddistinguevano per il resto della giornata.

Recita un vecchio detto fiorentino che ancora si sente ripetere: “Il Piovano Arlotto legge sempre nel suo libro”, per indicare una persona sorda alle ragioni altrui o indifferente a quanto si porta alla sua attenzione, per tetragona indisponibilità o per astuto tornaconto. Si tratta, è evidente, di un classico traslato popolare che non ha rapporto con la ragione dell’atteggiamento del sacerdote.

L’attività pastorale in questa particolare forma missionaria del religioso che va a portare la parola ai fedeli nel loro luogo di lavoro e vita quotidiana, si ritiene fosse abbastanza frequente, e dunque il caso del Piovano può considerarsi emblematico di un nuovo stile, che coesisteva con quelli della tradizione.

Arlotto è un vero e profondo credente, animato da una gioia giovannea e dalla disposizione a vivere in uno stato di grazia che, non solo aveva eliminato ogni sentimento ostile nei confronti di qualsiasi persona, ma sembrava aver cancellato quello stato costitutivo di paura nel quale viveva la maggior parte dei religiosi e del clero, per una istintiva interpretazione emotiva del timor di Dio, senza del quale – si ripeteva – non vi può essere salvezza. La giovialità spiritosa, l’amore per i viaggi, che lo portavano ad assumere incarichi pastorali in terra di Francia, nelle Fiandre e in Inghilterra, l’abitudine a recitare delle burle e a prendere pasti in trattoria con gli amici, ponevano Arlotto in rotta di collisione col Savonarola, al quale sembrava più vicino il confratello domenicano teologo tomista e arcivescovo della città.

Il frate, che percepiva quel tempo come epoca della fine del mondo e presagiva il ritorno del Signore, considerava la mortificazione della carne in tutti i suoi aspetti l’unica possibilità di salvezza per una umanità che aveva smarrito la virtù del sacrificio di sé dei primi cristiani, la vocazione a prendere la propria croce per seguire Cristo nell’immolarsi per amore e, infine, il senso della vita come offerta a Dio che ce l’ha donata. La sensibilità comune, in Firenze e nell’Italia di quegli anni, riflessa negli atti pubblici ritrovati dagli storici, appare decisamente più prossima al modo di sentire del Savonarola che a quello del Piovano Arlotto.

Durante i periodi penitenziali, quando tutti i cristiani con digiuni, fioretti e sacrifici cercavano espiazione e purificazione, erano vietati gli spettacoli pubblici: il divertimento era bandito, perché incompatibile con la mortificazione del penitente; sarebbe stato come interrompere un digiuno.  Nel 1471 Gian Galeazzo Visconti e la sua consorte Bona di Savoia furono ospiti della Repubblica Fiorentina in periodo di Quaresima: si trovò il compromesso di organizzare in loro onore spettacoli di esclusivo soggetto sacro[9].

Savonarola, con le sue prediche apocalittiche, con le continue minacce del fuoco eterno, con le vere e proprie invettive contro i peccatori che, ricordiamo, non hanno riscontro nello stile del Buon Pastore tramandato dai Vangeli[10], rappresentava la pars destruens del cristianesimo, mentre il Piovano incarnava la pars costruens. Per il frate, tutto ciò che non è sofferenza, rinuncia, privazione, contrizione e mortificazione è male; per il Piovano tutto ciò che non è peccato può essere volto al bene per onorare il Signore e contribuire ad edificare nel singolo e nella comunità il Regno dei Cieli. È proprio questo costruire nelle coscienze nuovi modi di amare, di donarsi, di espandere la propria vita in comunione col prossimo, il nucleo spirituale della cultura rinascimentale.

Anche se nello stile del comportamento pubblico la società sembrava più vicina allo stato di consapevolezza della colpa, come nei riti di quaresima, di avvento e delle vigilie, che di esultanza per la buona novella del perdono come nelle feste popolari e nelle burle carnascialesche, il sentimento del popolo e del clero stava cambiando.

Da qualche tempo, soprattutto nelle prime ore del giorno e sul far della sera, in Piazza Santissima Annunziata si poteva udire suonare una campanella.

Sotto il portico dello Spedale degli Innocenti, disegnato dal Brunelleschi e decorato con i celebri puttini da Andrea della Robbia, nella testata di sinistra sopra alcuni gradini vi era una finestra chiusa, ma munita di un tamburo rotante di legno e, a fianco, di un cordone al quale era sospesa una squillante campanella. In genere, salivano i gradini delle donne col capo coperto e, dopo aver deposto nel vano del tamburo il tenero fantolino che tenevano avvolto in panni tra le braccia, suonavano la campanella per richiamare la suora addetta alla “ruota degli innocenti” e, quando la religiosa aveva ruotato il congegno, la donna sapeva che il suo bimbo era stato accolto e si allontanava a capo chino confidando in quella forma di adozione caritatevole che soccorreva senza giudicare, e non voleva nemmeno conoscere l’identità della persona, né le ragioni per cui non poteva o non voleva allevare il proprio figlio[11].

A Savonarola sembrava mancare quella perla essenziale della sapienza divina che Gesù dona all’uomo col perdono dell’adultera pentita: condannare sempre il peccato e mai il peccatore, perché il giudizio è di Dio[12].

Una ricca letteratura fiorita sulle burle del Piovano[13], così come i libri pubblicati da altri a suo nome, hanno creato un’aneddotica di pura invenzione. Lui, come Socrate, non scrisse nulla, e l’unica raccolta sui suoi motti e facezie che ha probabilità di essere vicina al vero, perché curata da un suo amico, è il manoscritto realizzato dal copista Giovanni Mazzuoli di Strada detto “lo Stradino”, che si trova presso la michelangiolesca Biblioteca Laurenziana[14]. Allo stesso modo, deve intendersi romanzata la narrazione che lo vede come un reprobo che l’arcivescovo cercava di redimere e poi cominciò a perseguitare, creandosi una rivalità sfruttata per trame novecentesche, a partire dalla commedia di Giulio Bucciolini[15].

È vero e documentato che Arlotto fu punito per alcuni giorni con la privazione della libertà, rimanendo in custodia detentiva presso il palazzo vescovile a causa di un’irriverente facezia, ma si trattò di un episodio isolato, perché l’arguto sacerdote era un pastore di profonda conoscenza teologica e intensamente dedito alla pratica del suo ministero, non era certo un peccatore impenitente da convertire, e il suo arcivescovo non poteva corrispondere al personaggio dipinto in queste biografie[16]. Infatti, gli autori di queste narrazioni, composte attingendo in modo indiscriminato, ignorano due cose dirimenti per importanza: la prima è che l’Arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi non era altri che Sant’Antonino, noto per la docile mansuetudine, la propensione all’amorevole comprensione dei fratelli e la fede nella pratica del perdono e nella teologia della misericordia; la seconda è che il Santo era cugino di Arlotto Mainardi e ne conosceva il cuore e le virtù sacramentali.

Ma il Piovano non propone solo un nuovo stile di cristiano, che troverà poi numerosi riscontri nel seguente Rinascimento romano, compie soprattutto un lavoro di istruzione che sfrutta con intelligenza due parametri importanti per l’apprendimento: la ripetizione costante dell’esperienza e l’effetto evocativo di attualità, reso attraverso la lettura recitata dei testi delle sacre scritture.

Dico spesso che la maggiore forza che ho visto esprimere dal cervello nel comportamento è quella dell’abitudine. Arlotto cerca con sistematica pazienza di indurre l’abitudine all’ascolto della parola sacra, alla riflessione sul suo significato e a verificare se la si sta mettendo in pratica con l’aiuto del fratello consacrato, che bussa alla porta della tua bottega come Cristo bussa alla porta del tuo cuore. In altre parole, cerca di creare le condizioni perché ciascuno sostenga la propria coscienza con la forza dell’abitudine virtuosa al fine della conversione.

Foresto Niccolai riprende dai documenti: “Umano verso chiunque, la sua amicizia, o anche solo la sua conversazione erano desiderate da molti: quando scendeva a Firenze, veniva spesso invitato a pranzo da persone buone e da nobili cittadini. Per tutti aveva una parola gentile e qualche bella novella da dire, Ne raccontò un numero infinitamente grande, e tale che certo un intero volume, seppur ponderoso, non basterebbe a raccoglierle tutte. Diventato già ai suoi tempi famoso per questa straordinaria abilità, tanto che parecchi Fiorentini ambivano conoscerlo e farselo amico, ancora oggi viene ricordato per alcuni originalissimi motti”[17].

L’atto di carità compiuto dal Piovano è fondato sulla ratio principalmente seguita dal tempo degli Apostoli nell’evangelizzazione, ossia la trasmissione attraverso la parola scritta, letta e pronunciata, che è sostanzialmente l’unica modalità seguita per l’indottrinamento nell’ebraismo e nell’islamismo, che non ammettono l’arte sacra, seguendo l’interpretazione letterale del comandamento mosaico di non produrre manufatti o altre immagini che rappresentino la divinità in forma di idolo.

Ma nel Rinascimento, la riflessione di molti cristiani sull’efficacia emozionale e spirituale della diretta esperienza fatta di persone, atti e circostanze, induce sempre più ad apprezzare gli effetti della riproduzione analogica della realtà con specifiche enfatizzazioni da ottenere mediante la tecnica e l’abilità dell’artista. Considerare la riproduzione di sentimenti espressi, volti che sorridono d’amore, gesti che rendono l’amicizia o rappresentano la carità verso il prossimo, sofferenti che ricordano la passione di Cristo e bambini che rendono con la loro gioia la felicità nella purezza dei semplici, porta alla coscienza la possibilità di un uso deliberato e sistematico dell’arte per evocare gli stati d’animo complementari dei contenuti cognitivi veicolati dal senso delle parole lette o ascoltate.

La pittura e la scultura non sono più concepite come un mezzo per completare in maniera degna e appropriata l’arredamento della “casa di Dio”, ma come strumento evocativo da affiancare sistematicamente alla parola, per favorire nei fedeli un’esperienza spirituale costituita dall’attualità di riproduzioni che, entrando nel presente come simulacri di realtà, possano favorire un mutamento dello stato di coscienza.

Leonardo da Vinci aveva compreso che la forza maggiore della comunicazione non consiste nella capacità di trasmettere i contenuti di senso cifrati nei simboli, ma nella virtù di evocare stati dell’animo e della mente capaci di conferire qualità e senso d’affetto e di emozione al pensiero umano.

Questa virtù evocatrice dell’arte diviene presto in Firenze una risorsa fondamentale del linguaggio degli artisti, così che la generazione successiva, a cominciare da Michelangelo, ne fa un elemento imprescindibile per conferire quella qualità speciale e suggestiva che apprezziamo nei grandi capolavori rinascimentali, come il Mosè o la Pietà, che non si limitano a esprimere sentimenti: sono potenzialmente in grado di evocarli nello spettatore.

 

15. La lezione di Leonardo: il contenuto è la sostanza del messaggio e dà forma al mezzo che la esprime. Ho citato in precedenza[18] Pedretti che riporta l’accostamento a Catone da parte di un contemporaneo del maestro di Vinci a sostegno dell’abilità di comunicatore del giovane artista amico del Magnifico; tuttavia, pur essendo convinto di queste capacità e dell’utilità di considerarle una chiave di lettura del lavoro mentale all’origine dell’opera di Leonardo, dopo aver letto numerosi scritti e documenti, dubito che il contemporaneo avesse avanzato il paragone con l’intento di esaltarne le qualità oratorie, didattiche o persuasive, perché nella cultura dell’epoca la figura storica di Marco Porcio Catone, detto il Censore, il Sapiente, l’Antico o il Maggiore, per distinguerlo dal pronipote Catone l’Uticense[19], era assurta a modello emblematico di rigore e intransigenza morale. Per esaltare l’eloquenza sapiente sarebbe stato più appropriato un paragone con Cicerone, e si sarebbe dovuto dire “un altro Cicero” non “un altro Cato”. Che ne dite?

Catone aveva costumi morali molto rigidi, combatteva l’ellenizzazione che gli sembrava minacciasse lo stile austero, parco ed essenziale tipico del Romano, si oppose all’abrogazione della legge di guerra che limitava i lussi e gli sprechi delle donne e, infine, espulse Lucio Quinzio Flaminio per crudeltà ingiustificata. Diceva: “I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori”[20].

E se il paragone con Catone fosse un accostamento appropriato, e fatto di proposito con una venatura di celia, per il rigore dei costumi del giovane Leonardo? Non lo sapremo mai, ma credo che dai dati raccolti e fin qui commentati non lo si possa escludere.

L’efficacia comunicativa di Leonardo non deriva da artifici retorici nella parola o da banali e vistosi effetti cromatici in pittura, ma dalla capacità di trasmettere contenuti in modo avvincente; questa abilità gli deriva da una ricerca costante di intimità mentale con gli oggetti del suo pensiero, una sorta di coerenza assoluta o, se si vuole, di perfetta coesione tra coscienza e sostanza concettuale. È la realtà di questa coesione interiore con i contenuti, che emerge nella sua parola e nella sua pittura: è questa la sua forza.

Il versante più profondo di questo stato mentale appartiene probabilmente a quell’insieme di processi inconsci che, influenzando la dimensione cosciente, danno luogo a ciò che oggi chiamiamo ispirazione e a quel tempo si denominava genio[21], mentre il versante emergente si esprimeva in quella raffinata, educata e perfezionata pratica esecutiva, che è diretta matrice delle opere che ammiriamo.

Quando non sente dentro di sé questa unione con l’idea, sia per difetto di conoscenza sia per difetto di esperienza, Leonardo si astiene dal comunicare e riflette, osserva, elabora, studia. Se, al contrario, si sente padrone di un contenuto, non esita perché è la motivazione stessa a condurlo, e ciò che comunica è chiaro, diretto ed efficace. Nelle parole di Giorgio Vasari che ho citato in precedenza leggiamo della sua capacità, da giovane, di persuadere sulla realizzabilità di progetti arditissimi o irrealistici, ma questo non basta più al Leonardo maturo.

La sua esigenza di sperimentatore e studioso costantemente alle prese con nuove esperienza e nuove conoscenze è riuscire a rendere in modo efficace ciò che appare ostico in quanto nuovo, e riuscire a trasmettere, attraverso la multi-significatività dei simboli, le idee complesse e le esperienze non scomponibili in parti senza il rischio di snaturarle. L’analisi non è l’unico modo per comprendere la realtà e comunicarla, ma Leonardo si rende conto che l’operazione inversa, ossia la sintesi, richiede uno studio specifico per ciascun caso; uno studio che, nell’osservazione della natura, consiste nel comprendere il senso prodotto da un insieme di fenomeni, e nel lavoro creativo è dato dalla definizione chiara e precisa dello scopo del progetto.

Il suo lavoro sulle idee complesse si può apprezzare nello studio di piani diversi di significato nei simbolismi pittorici, come nella concezione di nuove machine costituite da differenti meccanismi noti, assemblati in modo originale per uno scopo nuovo. A questo fine cerca la chiarezza interiore, una semplificazione derivata dalla padronanza dei significati che gli consenta di rendere le idee con la semplice e istintiva sincerità del parlar franco fra amici[22].

Parresia è il termine greco che esprime questo concetto, sul quale è bene soffermarsi per qualche considerazione, perché i vari modi in cui è stato inteso o frainteso ci aiutano a comprendere uno stile mentale, del quale si sente tanto il bisogno ancora oggi.

Foucault scrive: “La parresia è un gioco di verità tra chi dice la verità e il suo interlocutore”[23]: una tesi che è stata molto influente per l’autorevolezza di chi l’ha formulata, ma che a me sembra una forzatura ai fini del soggetto del saggio in cui è formulata, perché nel “parlar franco” la verità è un presupposto scontato, e direi che in questione sono più i contenuti comunicati e gli affetti evocati. La lettura dei classici suggerisce che la parresia consista, per certi aspetti, nell’estendere lo stile della comunicazione privata alle circostanze pubbliche. Presenta, per questo, il tratto di libertà tipico del rapporto confidenziale e non risente del condizionamento formale che grava su molte circostanze sociali; dunque, non è inibita e manca di edulcorazioni e maniere cerimoniali, così che la si può definire coraggiosa e senza orpelli.

Qualcuno coglie nella parresia l’aspetto di realtà costituito dalle critiche dei nemici, scomodando Plutarco che considerava l’attenzione alla franca censura dei rivali un segno di saggezza[24]. Altri sembrano far corrispondere al concetto di parresia la spontaneità di qualsiasi mente e di qualsiasi persona, incluse quelle votate all’assoluta superficialità e futilità di interessi e argomenti. Ma non era così per i Greci, che infatti distinguono due generi nel parlare franco, uno negativo e l’altro positivo: quello negativo, dice Foucault, non è molto differente “dalla chiacchiera, che equivale a dire tutto ciò che si ha in mente, senza specificazioni”[25]; quello positivo equivale a un compito assunto da un soggetto responsabile in vista di un bene, come si deduce dalla lettura di Platone.

In altri termini, in molti casi si sovrappongono o si confondono quattro concetti diversi e ben distinti nella mente dell’uomo rinascimentale, educato a questo discernimento fin dall’infanzia: verità, realtà, spontaneità e sincerità. Nella parresia il vero è da ricondurre alla misura della buona fede, la realtà all’esperienza condivisa o condivisibile, la spontaneità, intesa come immediatezza espressiva, può rendere tanto la tendenza connaturata all’inganno quanto l’onestà; dunque, solo la sincerità, tra i quattro concetti, si addice al paragone con questo modo chiaro e trasparente di rendere e trasmettere le idee cercato dall’inimitabile genio toscano.

Il continuo esercizio di accesso cosciente alle proprie idee e di realizzazione grafica crea un canale diretto fra la sua dimensione interiore e ciò che comunica: Quella di Leonardo non è una missione di comunicazione della parola con la parola, come quella di Arlotto, Antonino e Savonarola, ma la speciale missione dell’arte, che è insieme bellezza e scienza, idealità e manualità, spiritualità e vita.

Il mondo cambia in quegli anni in modo radicale e improvviso, a volte drammatico, ma lui, pur cogliendo immediatamente il senso e adeguando la sua vita pratica, non distoglie mai l’attenzione dai principi che governano la sua vita interiore e gli fanno amare più di ogni altra arte la pittura, quella musa che l’intelletto guida fin quando scopre che da lei è guidato.

Nel 1492, quando Colombo scopre l’America credendo di aver raggiunto le Indie, mentre a Firenze il suo ammiratore fiorentino, navigatore e geografo Amerigo Vespucci studia la possibilità che si tratti di un nuovo continente, muore Lorenzo, l’amato amico di Leonardo, e gli succede il figlio Pietro che, poco più che ventenne, si trova ad affrontare una situazione politica difficilissima, esitata poi nella cacciata dei Medici e nell’istituzione di una repubblica di impronta teocratica savonaroliana, che riporta la città al clima medievale. I fautori del nuovo governo repubblicano non hanno il coraggio che aveva avuto Savonarola nel confiscare e donare ai poveri i beni accumulati nei monasteri e, dunque, si tende a ritornare a un potere di influenza politico-economica degli ordini monastici.

In quell’anno, in occasione del matrimonio tra Beatrice d’Este e Ludovico il Moro, Leonardo è chiamato a disegnare i costumi per il corteo di Sciiti e Tartari.

Nel 1494 Ludovico il Moro si allea con Carlo VIII, che cala in Italia per riprendere i suoi diritti sul regno di Napoli sottratto agli Angioini dagli Aragonesi, che avevano con i Fiorentini il progetto di allearsi per invadere la Lombardia. L’arrivo dei soldati francesi a Napoli porta il mal francese, ossia la sifilide, causando la prima epidemia venerea della storia, spaventando e allontanando i Fiorentini, che frequentavano Napoli da quando Roberto d’Angiò aveva governato Firenze, ossia nel periodo dal1313 al 1318, durante il quale il re di Napoli aveva mediato la stipula della pace tra Guelfi e Ghibellini nel Castel Nuovo o Maschio Angioino, dove dimorarono Giotto di Bondone, Giovanni Boccaccio e Francesco Petrarca.

Leonardo è a Milano e nel 1495 dà inizio al Cenacolo: in uno dei suoi taccuini tascabili ha preso appunti sui gesti che dovranno compiere gli apostoli ed ha poi sviluppato uno studio di organizzazione spaziale dei personaggi; in altri termini, una perfetta sceneggiatura basata rigorosamente sui testi evangelici di Marco e Luca, interpretata dalla maestria del pittore-regista che trasmette alla perfezione anche l’insegnamento tomista della volontarietà del peccato con la posa conferita alla figura di Giuda. Sul Cenacolo sono stati versati i proverbiali fiumi di inchiostro, ma qui mi piace solo osservare un aspetto minore, anche se non banale rispetto al filo delle riflessioni che sto sviluppando.

Ai pittori che dovevano rappresentare piante e alberi, Leonardo ha insegnato che le masse di foglie non sono mai ammassate a caso: vedi sempre una fogliolina emergere sulle altre e, se guardi bene, altre due, una per lato, o altre quattro, due per lato, sono accostate, solo un po’ più indietro, formando triadi o pentameri con una simmetria lievemente imperfetta al loro interno. Se guardi bene, dunque, i margini delle masse di foglie appaiono come aggregati multipli di tre o di cinque: una simmetria che la natura nasconde, il pittore scopre e poi nasconde un po’ anche lui, come la natura. I dodici apostoli sono quattro gruppi di tre, ma la separazione in gruppi non appare subito: Leonardo ha applicato il principio di natura delle “simmetrie nascoste” e, dunque, allungando le braccia di due apostoli, uno per lato, ha riunito i gruppi, in modo da creare continuità e non alterare la sensazione di spontaneità dei movimenti.

Leonardo, abituato a pensare attraverso l’atto del disegnare, ha sviluppato un’intelligenza grafica senza pari, che gli consente di trovare soluzioni mai concepite in precedenza per la rappresentazione col disegno tecnico di strutture, congegni, apparati e configurazioni di elementi per la realizzazione di macchine, così da creare dei prototipi non solo di creazioni e idee innovative ma del modo in cui rappresentarle sulla carta.

La documentazione storica ha dimostrato che i suoi prototipi grafici erano concepiti come modelli per lo studio e la realizzazione di progetti[26]. È questa la ragione e “il significato dell’attenzione da lui prestata all’elaborazione e alla definizione di alcune eccezionali tecniche di disegno tecnologico, grazie alle quali egli riesce a raffigurare non solo le macchine nel loro complesso e i meccanismi fondamentali, ma anche gli schemi di funzionamento”[27].

Prima di lui nessuno era riuscito a prospettare nel disegno in modo così efficace per realismo e utile alla realizzazione un progetto tecnico complesso, e ciò lo ha reso a pieno titolo padre indiscusso dell’illustrazione tecnologica moderna, ma ciò che mi sembra rilevante sottolineare è che questo suo lavoro grafico è rivolto a persone che dovranno comprendere e apprezzare la concezione del progetto e, soprattutto, a coloro che lo dovranno tradurre in oggetti materiali: committenti, ingegneri e artigiani. In altri termini, l’intento comunicativo è costantemente presente alla mente geniale, dal momento della formulazione dell’idea all’ultimo tratto tracciato, come quando concepisce ed esegue un’opera pittorica.

Leonardo non è un genio isolato e incompreso secondo l’immagine ottocentesca “dura a morire”, come lamenta Pedretti, ma è idealmente in costante rapporto con allocutori del suo agire mentale, che spesso sono suoi interlocutori sociali e professionali. Come nel suo Trattato della pittura si rivolge costantemente ai pittori, nelle tavole anatomiche ai medici e nella concezione dei suoi dipinti sacri, i cui cartoni preparatori sono talvolta esposti al pubblico come evento, si rivolge al cuore dei fedeli, così durante la realizzazione dei disegni tecnici il suo scopo è fornire il miglior supporto possibile all’intelligenza esecutiva.

Questa cura ha permesso la realizzazione delle macchine di Leonardo che vediamo esposte nelle mostre permanenti di Firenze ed itineranti in tutto il mondo; ma non di rado, quando si possa vedere accostato il disegno di Leonardo al modello realizzato dai nostri contemporanei, si sente dire – per commento unanime – che il disegno è molto più bello del manufatto. Perché? Perché chi ha realizzato la macchina, la struttura o lo strumento rappresentato dal Genio, ne ha estratto l’informazione riguardante il congegno, non preoccupandosi di conservare le proporzioni delle parti e l’eleganza dei profili, con la conseguenza di perdere l’effetto di armonia e compiutezza che ritroviamo in ogni disegno del maestro, anche quelli meno curati o appena abbozzati.

E proprio questo aspetto dell’intelligenza artistica di Leonardo ci consente di comprendere la sua abilità stupefacente nell’illustrazione anatomica, che gli conferisce un primato nel disegno medico-scientifico non uguagliato in epoca contemporanea nemmeno dall’assoluta precisione di dettaglio e dal sapiente impiego del colore di Paolo Mascagni, nelle sue celeberrime tavole di anatomia descrittiva e topografica.

Leonardo è un’intelligenza dinamica che si rivolge costantemente ad altre intelligenze e il suo linguaggio, tratto dalla lingua madre della natura, ne esprime come un proprio accento l’indelebile tratto della bellezza.

 

 

 

[continua]

 

 

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-29 maggio 2021

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Eretta nel 430, giunse fino al tempo di Dante; abbattuta dall’alluvione del 1333, fu ricostruita come la si vede oggi, sormontata da una croce, in Piazza di San Giovanni, cioè la piazza del Duomo di Santa Maria del Fiore.

[2] Nell’uso comune si chiama “pazzo” la persona che non si comprende perché fa qualcosa di insensato, inutilmente pericoloso o del tutto sbagliato, implicitamente riferendo questa condotta al malato di mente per un disturbo psicotico. Prima di tale accezione, la parola pazzo era significata secondo la sua derivazione latina da pactius (l’origine da patiens si è provata erronea) ovvero compatto; il verbo pactiare si impiegava per definire l’operazione contadina di rendere compatto attraverso lo sbattimento. Per similitudine si usava come attributo descrittivo e talora scherzoso di attività molto movimentata; in questo senso pactiare ha dato luogo nell’idioma napoletano al verbo pazziare riferito ai vivaci trastulli di bambini allegri (A. Gentile).

[3] Fra gli assassini assunti dai Pazzi vi era il soldato di ventura Giovan Battista da Montesecco, il quale, quando seppe che si dovevano uccidere i giovani eredi della famiglia Medici in chiesa all’elevazione del calice, in spregio alla consacrazione, si trasse indietro con orrore, rifiutando un simile sacrilegio (Ammirato).

[4] Cfr. “Morì per Lorenzo il Magnifico” in Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 213-214, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[5] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.), op. cit., p. 214.

[6] Cit. in Foresto Niccolai, op. cit., idem. Il Poliziano, accolto in casa come un fratello da Lorenzo nonostante le sue umili origini, ebbe a disposizione la biblioteca medicea e ogni risorsa per diventare un grande umanista; fu incaricato del compito di precettore. Dispiaciuto perché Clarice Orsini non gli volle affidare l’ultimo figlio Giovanni (divenne poi Papa Leone X) andò via da Firenze. Quando scrisse a Lorenzo per chiedergli di tornare, Lorenzo lo accolse come il padre del figliuol prodigo nel Vangelo, e creò per lui anche una cattedra presso lo Studio Fiorentino (l’Università).

[7] Arlotto Mainardi detto Piovano o Pievano Arlotto (Firenze, 1396-1484) fu parroco di San Cresci e poi dimorò presso l’Ospizio dei Pretoni, nell’Oratorio di Gesù Pellegrino presso la chiesa sita tra Via San Gallo e Via Arazzieri dove si visita la sua tomba. Quattrocento anni dopo, nel 1858, la sua fama era ancora viva in Firenze quando fu fondata la rivista letteraria e satirica “Piovano Arlotto”, alla quale collaborarono Giuseppe Mazzini, Victor Hugo, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montanelli e tanti altri.

[8] Anche il celebre “preferisco il Paradiso” di San Filippo, come motivazione al rifiuto di entrare nelle gerarchie ecclesiali, si fa risalire ad Arlotto Mainardi.

[9] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte prima (I vol.) IV edizione, p. 41, Tipografia Coppini, Firenze 1997.

[10] Nei tre anni di predicazione solo in brevi momenti Gesù fa discorsi escatologici, e la cacciata dei mercanti dal Tempio rimane un episodio unico; per il resto, con l’esempio, le parabole e i miracoli ha insegnato ad amare Dio e il prossimo, pregando il Padre anche per i suoi nemici, anche per quelli che lo crocifissero. In dottrina è prevista la “correzione fraterna” che, spiega Gesù, va fatta a quattr’occhi e non denunciando sulla pubblica piazza i presunti peccati di un fratello di fede.

[11] Le madri mettevano al collo del neonato nastrini o cordoncini con ciondoli, medagliette, anelli, nastri colorati, immagini sacre, ecc. che venivano consegnati al bambino quando era cresciuto per consentirgli di ritrovare una famiglia; quelli rimasti a giacere, tra questi oggetti, sono oggi in mostra al museo dello Spedale.

[12] Lorenzo, per far comprendere questo principio al frate e per vincere la paura di un’imminente fine del mondo che lui aveva creato con le sue prediche, chiamò il coltissimo ed eloquente agostiniano Mariano della Barba da Genazzano a tenere una lectio alla presenza di Pico della Mirandola, Poliziano, la corte medicea e un concorso di popolo mai visto prima, su un tema tratto dagli Atti degli Apostoli di Luca: Non est vestrum nosse tempora vel momenta.

[13] Dalle quali origina anche la locuzione “scherzi da prete”.

[14] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte seconda (II vol.), p. 44, Tipografia Coppini, Firenze 1996.

[15] Le burle del Piovano Arlotto: tre atti da ridere (1910).

[16] Ad esempio, quella che si trova in Wikipedia.

[17] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte seconda (II vol.), p. 43, Tipografia Coppini, Firenze 1996.

[18] Alla fine del paragrafo 11, da Carlo Pedretti, Il genio in presa diretta, in Leonardo – Arte e Scienza, p. 7, Giunti, Firenze 2000.

[19] Anche Catone Uticense, d’altra parte, era descritto quale uomo retto, moralmente rigoroso e incorruttibile.

[20] Marco Porcio Catone, citato in Aulo Gellio, Notti Attiche XI, 18, 18.

[21] Come si desume dagli scritti dell’epoca, il valore semantico della parola “genio” non si limitava a coprire quello del termine ispirazione, ma investiva significati che oggi rendiamo ricorrendo al vocabolo “motivazione”, usato nel senso del quasi omografo inglese motivation, ossia stato di volontà affettiva o forte propensione emotiva a fare qualcosa: “avere genio di compiere un’opera”. Nell’idioma napoletano, influenzato nei secoli dal lessico fiorentino, per la legge linguistica del “conservatorismo della periferia”, sopravvive il significato di “avere voglia”, come nella tipica locuzione negativa dialettale: “Nun tengo genio”.

[22] Non voglio dire che si debba escludere l’uso del simbolismo criptico o enigmatico nell’opera di Leonardo, ma che tutto quanto è emerso dalle indagini dei suoi maggiori studiosi ci indica la costante ricerca di chiarezza e precisione nella rappresentazione delle idee, che gli consentono di raggiungere un’efficacia comunicativa straordinaria.

[23] Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, p.8, Donzelli, Roma 1996.

[24] Cfr. Salvatore Natoli, L’edificazione di sé – Istruzioni sulla vita interiore, p. 59, Laterza, Roma-Bari 2010.

[25] Michel Foucault, op. cit., p. 5.

[26] Una delle tante dimostrazioni che Leonardo non era affatto un “genio incompreso”, secondo il classico cliché caro agli storici dell’arte. Sapeva che i suoi modelli sarebbero stati impiegati da colleghi e committenti.

[27] Carlo Pedretti, Leonardo – Arte e Scienza, p. 132, Giunti, Firenze 2000.